lunedì 9 giugno 2014

il Pdci sulle proposte per il mercato del lavoro di Confindustria

Sicuramente non sarà passato inosservato agli addetti ai lavori (gli organi di stampa non hanno fatto cenno alla cosa) che pochi giorni prima delle elezioni la Confindustria ha reso pubblico un documento dal titolo “Proposte per il mercato del lavoro e per la contrattazione”.

Le analisi sono le solite: mercato del lavoro da flessibilizzare, eccesso di tutele per alcune tipologie di lavoratori, costo del lavoro eccessivo e tutto il resto del refrain neoliberista che conosciamo.

In questo documento viene dato un bel voto al Governo per la nuova legge sul tempo determinato, e questo era scontato. Si mettono però le mani avanti sul jobs act a tutele crescenti, che non deve assolutamente essere sostitutivo di altre tipologie contrattuali le cui caratteristiche vanno al massimo attenuate.
Perfino sull’apprendistato, su cui il governo è già pesantemente intervenuto, vengono chieste ulteriori riduzioni delle garanzie per i lavoratori.

Il punto principale però è la richiesta di intervenire sul lavoro a tempo indeterminato, in particolare sulla flessibilità delle mansioni e con un ulteriore taglio ai diritti previsti dallo Statuto dei Lavoratori.

Si tenga presente, per inquadrare il problema, che l’art.2103 del codice civile dice che un lavoratore deve essere utilizzato per le mansioni per cui è stato assunto o anche superiori ma con garanzie ben definite. La Confindustria propone di cambiare la definizione di equivalenza delle mansioni, in sostanza rendendo più facile la possibilità di far svolgere mansioni inferiori e nel caso di svolgimento di mansioni superiori ridurre o eliminare le garanzie per i lavoratori. E’ evidente che una modifica del genere avrebbe effetti anche sull’inquadramento previsto contrattualmente.

Sullo Statuto dei Lavoratori all’art.18 vorrebbero limitare la reintegrazione nel posto di lavoro ai soli casi di licenziamento discriminatorio o nullo prevedendo solo un’indennità per tutti gli altri casi, in pratica chiedono la sua abolizione totale. La limitazione delle garanzie verrebbe estesa anche ai licenziamenti collettivi per i quali in caso di errore nell’applicazione dei criteri dovrebbe essere prevista solo un’indennità.

Si chiede inoltre di ridurre i limiti all’utilizzo di mezzi di controllo dei lavoratori sul luogo di lavoro (vogliono tornare agli anni ’50).

Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali viene richiesto, nel documento della Confindustria, di avere solo due tipologie di ammortizzatori: la CIG per i casi di effettiva possibilità di ripresa dell’azienda e per tutti gli altri l’ASPI (la disoccupazione).

In sostanza la Confindustria chiede di ridurre gli ammortizzatori che permettono di mantenere il rapporto di lavoro, cosa molto pericolosa soprattutto in un periodo di crisi.

La CIG in deroga andrebbe abolita spostando i finanziamenti a sostegno dell’ASPI, inoltre viene richiesto di parificare l’aliquota di contribuzione, che oggi è differenziata per settore, pagando complessivamente di meno (per l’industria una riduzione dell’aliquota da 1,3% a 1%).

Viene inoltre richiesto di portare all’equilibrio contributi/prestazioni l’aliquota prevista per la CIG; in pratica vogliono pagare di meno (una riduzione dell’1%, oggi va da 1,9% a 2,2%) stabilendo la corrispondenza fra quanto versato e quanto viene erogato. La cosa potrebbe apparire logica. Ma attenzione: in realtà la contribuzione pagata per la CIG è gestita dall’INPS e l’attivo di quel conto contribuisce alla stabilità del sistema pensionistico. Ridurre quell’entrata significherebbe aumentare il deficit dell’INPS con pessime prospettive per il sistema pensionistico.

Sul sistema contrattuale si chiede di andare oltre la centralità della contrattazione aziendale.

Si chiede, in pratica, al governo una legislazione, da rendere strutturale, che favorisca il decentramento della contrattazione a livello aziendale legando gli aumenti salariali ai risultati di redditività e produttività.

La Confindustria arriva a chiedere che il vantaggio fiscale si applichi alle erogazioni unilaterali dell’imprenditore. In sostanza l’incentivo chiesto al Governo oltre a disincentivare il CCNL dovrebbe mettere sullo stesso piano la contrattazione aziendale e l’assenza totale di contrattazione. In pratica si farebbe contrattazione solo dove ci sono rapporti di forza favorevoli ai padroni oppure dove paradossalmente il padrone decide che la cosa, per un qualche motivo, è a lui conveniente. In molti casi si creerebbe un incentivo a cancellare il sindacato dall’azienda ricattando i lavoratori, (o rinunci al sindacato, oppure non ti do l’aumento detassabile, modello della Valle).

Nel documento si dice che “occorre superare la logica di privilegiare la fonte piuttosto che la natura dei salari.” Che tradotto vuol dire che va eliminata qualsiasi norma che privilegi la contrattazione rispetto alle erogazioni unilaterali.

Inoltre il contratto aziendale deve vivere del demando del CCNL e della legge. Attenzione a questo passaggio, si tende a generalizzare lo spazio per la definizione per legge delle regole oggi contenute nel contratto. In sostanza dopo la derogabilità normativa viene richiesto di introdurre la derogabilità salariale per favorire la possibilità di “cogliere maggiori vantaggi per le imprese”, anche se con regole fissate dai CCNL stessi.

Nello specifico viene suggerito che:

a) nelle imprese che hanno la contrattazione aziendale gli aumenti salariali legati ai risultati devono essere alternativi a quelli previsti dai CCNL.

b)le imprese che non hanno la contrattazione aziendale dovrebbero poter scegliere fra gli aumenti previsti dal CCNL e l’applicazione in azienda di “schemi o modelli retributivi che abbiano un collegamento con i risultati aziendali predisposti dagli stessi CCNL”. In pratica il CCNL stabilisce delle regole generali e l’azienda unilateralmente le applica a proprio piacimento nella singola realtà produttiva.

Si vuole in pratica sostituire al ruolo del CCNL, cancellando il meccanismo  di regolazione dei minimi salariali, e sostituirlo con la contrattazione aziendale o altrimenti con l’azione unilaterale del padrone. Il ruolo del CCNL diventerebbe quello di regolamentare nel modo più lasco possibile la deregolazione di se stesso, una sorta di suicidio assistito, ma obbligatorio.

A questo punto il quesito è: chi decide che in un’azienda si fa o non si fa la contrattazione aziendale? Chicca finale è l’affermazione che il salario minimo legale in discussione “obbliga” a ridiscutere il ruolo del CCNL e quindi deve essere strutturato per rispondere a questa finalità.

La Confindustria non ha manifestato l’intenzione di incontrarsi con i sindacati, definendo tali incontri inutili riti e perdite di tempo. Sullo stesso accordo sulla rappresentanza nel documento c’è solo un vago accenno, ovviamente senza nessuna richiesta al Governo di legislazioni di sostegno.

Viceversa questo documento è stato presentato il 21 maggio in un incontro prima con il Ministro dello Sviluppo Economico Guidi (ex presidente dei giovani di Confindustria) e poi con il Ministro del lavoro Poletti (ex presidente della Alleanza delle Cooperative Italiane). In sostanza per la Confindustria questo documento rappresenta un programma di Governo sui temi del lavoro.

Quindi mentre il Governo manifesta l’intenzione di non incontrarsi con i sindacati, e in effetti non si incontra, invece con i padroni si incontra e lo fanno ben due ministri, entrambi di origine datoriale. Non è un fatto casuale, è una scelta di classe.

Sono scarse e deboli le risposte che finora hanno dato i Sindacati attestandosi, sostanzialmente anche se con qualche distinguo, sul jobs act a tutele crescenti che è pur sempre un peggioramento di ciò che oggi esiste.
Le idee evidentemente sono così poco chiare da non riuscire a  rispondere in modo netto nemmeno su un programma chiaramente reazionario come questo.

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